


Il caso: una persona concede in comodato un appartamento al fratello, coniugato.
Questi poi si separa e il Tribunale assegna la casa suddetta alla moglie (alla cognata quindi della proprietaria), in quanto affidataria dei tre figli minori.
La proprietaria chiede il rilascio dell'immobile. Il Tribunale accoglie la sua domanda, mentre la Corte d'Appello successivamente rigetta la richiesta.
La sentenza: la Cassazione (sentenza n.2506/2016) accoglie il ricorso della proprietaria volto ad ottenere la restituzione del bene.
Nella fattispecie era infatti stato dimostrato che l'immobile era stato concesso in comodato per esigenze solo temporanee. Il contratto, dunque, non aveva un termine né esplicito, né implicito, e la comodante poteva recedere liberamente secondo le previsioni dell'articolo 1810 codice civile. Questo uno dei passaggi chiave della pronunzia in esame: "il coniuge affidatario della prole minorenne, o maggiorenne non autosufficiente, assegnatario della casa familiare, può opporre al comodante, che chieda il rilascio dell'immobile, l'esistenza di un provvedimento di assegnazione, pronunciato in un giudizio di separazione o divorzio, solo se tra il comodante e almeno uno del coniugi (. ..) il contratto in precedenza insorto abbia contemplato la destinazione dei bene a casa familiare. Ne consegue che, in tale evenienza, il rapporto (...) ha - in assenza di una espressa indicazione della scadenza - una durata determinabile per relationem, con applicazione delle regole che disciplinano la destinazione della casa familiare, indipendentemente, dunque, dall'insorgere di una crisi coniugale, ed è destinato a persistere o a venir meno con la sopravvivenza o il dissolversi delle necessità familiari (..) che avevano legittimato l'assegnazione dell'immobile".
La decisione qui segnalata ha, dunque, distinto due tipi di comodato:
1- quello destinato a soddisfare stabili esigenze abitative familiari, destinato a protrarsi sinché perdurano le suddette esigenze
2- quello senza fissazione di termine, nemmeno implicito, che può essere sciolto ad nutum dal comodante.
Si precisa che la questione in esame è una delle più dibattute in ambito giurisprudenziale e ha registrato sentenze contrastanti nel corso degli anni, sia nelle Corti di Merito che in sede di Cassazione.
Febbraio 2016
N.B. il presente articolo ha uno scopo meramente informativo e orientativo. Non può essere inteso, nemmeno in senso lato, come parere professionale. Nel caso di problematiche occorre sempre rivolgersi al proprio legale di fiducia e far esaminare il caso concreto al fine di ottenere un parere personalizzato e completamente attendibile.
Dalla separazione al divorzio: tempi ridotti dal Legislatore
La legge n.898 del 1970, la prima in Italia sul divorzio, prevedeva che dovessero trascorrere cinque anni dalla separazione per ottenere la pronuncia di divorzio.
Successivamente il legislatore riduceva a tre anni il periodo di separazione necessario per arrivare allo scioglimento del matrimonio (o alla cessazione degli effetti civili del matrimonio religioso).
Ora con la legge 11.05.2015 n.55 bastano sei mesi in caso di separazione consensuale e dodici mesi in caso di percorso giudiziale (il termine decorre dalla comparizione dei coniugi innanzi al Presidente del tribunale nella procedura di separazione personale).
Non un divorzio immediato, quindi, ma tempi comunque ridotti per conciliare due interessi fra loro divergenti (ed entrambi meritevoli di tutela): da un lato la possibilità per i coniugi di rivedere la loro scelta (c.d. ripensamento e conseguente riconciliazione), dall'altro lato la necessità di definire rapidamente una situazione che si presenta, il più delle volte, irreversibile.
Giugno 2015
N.B. il presente articolo ha uno scopo meramente informativo e orientativo. Non può essere inteso, nemmeno in senso lato, come parere professionale. Nel caso di problematiche occorre sempre rivolgersi al proprio legale di fiducia e far esaminare il caso concreto al fine di ottenere un parere personalizzato e completamente attendibile.
Errore del medico di base: anche l'Asl è responsabile.
Il caso: un paziente non si sente bene, chiama il medico di base e questi effettua la visita con estremo ritardo e prescrive cure del tutto inadeguate.
Le conseguenze per il malato sono molto gravi (ischemia e danni irreparabili) e l'Asl viene condannata dalle Corti di Merito al risarcimento dei danni. La causa approda quindi in Cassazione.
La sentenza: la Corte di Cassazione (pronuncia n.6243/2015) stabilisce che "L'Asl è responsabile civilmente, ai sensi dell'art. 1228 del Codice Civile, del fatto illecito che il medico, con essa convenzionato per l'assistenza medico-generica, abbia commesso in esecuzione della prestazione curativa, ove resa nei limiti in cui la stessa è assicurata e garantita dal S.S.N. in base ai livelli stabiliti secondo la legge". La Suprema Corte ha quindi ritenuto che sussista un'obbligazione dell'Asl a fornire ai cittadini la prestazione sanitaria (entro i limiti previsti dal S.S.N.).
In precedenza il solo a rispondere per gli errori commessi era il medico di base, come libero professionista, senza vincoli di dipendenza con l'Asl.
Asl e medico di base, alla luce di questa pronunzia, sarebbero quindi entrambi responsabili, in solido, per eventuali errori.
Marzo 2015
N.B. il presente articolo ha uno scopo meramente informativo e orientativo. Non può essere inteso, nemmeno in senso lato, come parere professionale. Nel caso di problematiche occorre sempre rivolgersi al proprio legale di fiducia e far esaminare il caso concreto al fine di ottenere un parere personalizzato e completamente attendibile.